Sabrina F. non parla più da cinque anni a questa parte. Ho impiegato sei mesi per capire cosa volesse dire fra i denti, con quei suoi occhi color nocciola, sgranati – cercando di non perdermi fra i solchi profondi delle guance e le labbra contorte dalla violenza dello sforzo, di non lasciarmi distogliere dalla trama di tendini del collo, tesi fino allo spasimo nel tentativo di dare un suono, una parola. Quando viene da me faccio il giro della scrivania e mi siedo accanto a lei, tendo meglio l’orecchio, annullo il brusio della sala d’aspetto, mi concentro sulla lenta e pesante danza del suo volto tentando di decifrarne il labiale. Qualche volta Sabrina è più rilassata, più sciolta e capisco meglio; altre volte ci metto un po’. Una volta che eravamo entrambi particolarmente rassegnati e stanchi, ha dovuto scrivere quello che desiderava che io facessi: è stato triste. Abbiamo provato tutto: otorinolaringoiatra, psichiatra, neurologo, logopedista, ecografia, tac, risonanza, terapia farmacologica antipsicotica, ansiolitici, antidepressivi… Nulla. La sua difficoltà a parlare dipende sempre e solo da come sta lei al momento, dalla giornata. Da quando la conosco è così. Ieri però è successo qualcosa. Sarà la primavera inoltrata, il sole, la luce, l’odore dei fiori; oppure il perché
sta forse nel fatto che adesso un po’ ci conosciamo… Non saprei. Sedeva davanti a me con un bel sorriso, decisa. Io mi sono seduto accanto a lei come al solito e ho notato subito che era una buona giornata, parlava meglio. Ha raccontato tutto, spontaneamente, senza preamboli, con calma. Io non avrei potuto muovermi. Ascoltavo in religioso silenzio. Sabrina è stanca del marito. Sono anni che subisce le sue angherie. Mi ha parlato di quest’uomo il quale attribuisce a lei i fallimenti della propria misera vita, che sfoga su di lei le sue rabbie, che la tratta come un essere inferiore. Sabrina ha detto per la prima volta di avere due figlie: una che vive e lavora poco distante e un’altra fuggita all’estero pur di smettere di litigare ogni giorno con quel padre rigido e dispotico. Ogni tanto dovevo fermarla, mi sfuggivano troppe parole e non capivo il senso della frase; così lei sorrideva e piangeva e sorridendo e piangendo mi ripeteva l’intera frase più lentamente, cadenzando meglio,
scegliendo parole meno lunghe, con meno consonanti. Piangeva sì, ma parlava bene spiegando quelle cose che aveva dentro, con un eloquio che era stato troppo a lungo bloccato. Ascoltavo ogni parola come un’epifania. La segretaria a un certo punto mi chiama al telefono e d’un tratto il tempo riappare nella stanza, fra di noi: mi si dice che la sala d’aspetto è stracolma e ribolle; le chiedo di pazientare, di inventare qualcosa… E’ in momenti come questo che ritrovo il senso di tante giornate grigie, trascorse nella burocrazia e nella routine del mestiere ingrato, pratico, concreto, duro e non ci rinuncerei per nulla al mondo. Sabrina capisce che il breve tempo a sua disposizione è già scaduto e si ricompone. Allora cerco di chiudere questa visita ambulatoriale nel migliore modo che posso: non cerco le parole, quello che penso glielo dico e basta: in vita mia ho conosciuto più di una persona che ha il potere di far impazzire chi le vive accanto, a fuoco lento, giorno dopo giorno, con metodo… Un matrimonio può finire, un uomo si può lasciare, tutto quello che lei ha nel cuore andrebbe meglio rivisto con uno psicologo, con qualcuno di sua fiducia che abbia tempo e metodi adeguati per accogliere il suo disagio e rielaborarlo assieme a lei; apro il
taccuino, suggerisco il nome e il numero di telefono di una psicoterapeuta di mia fiducia. Sabrina si alza, mi viene incontro, parla con chiarezza, come nulla fosse accaduto prima a quella voce. Esce. Io chiudo la porta a chiave dietro di lei. Mi siedo. Il telefono here squilla, gli uccellini cinguettano al sole splendente, un gatto nel giardino – chi sa dove – miagola per fame. Ho bisogno di un po’ di tempo per me, che non è mai abbastanza, per riordinare le emozioni. Fuori, la sala d’aspetto ringhia bisogni, quesiti, malesseri, dolore…
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