Ma io scrivo un a bella lettera!
Il Lunedì c’è sempre più concitazione. La mattinata è partita forte da subito. La sala d’aspetto è stracolma. Si parla e si ride un poco con chi ho davanti, faccio le mie prescrizioni, do qualche consiglio, saluto. Il tempo che la porta divisoria si chiude per riaprirsi è infinitamente piccolo; dalla sala d’aspetto colma di vocio e respiri arriva Franca e appena entra in ambulatorio mi torna in mente che fuori è una piovosa mattina di Aprile. Ha il volto pesto dal dolore, l’espressione intensa, mesta, non l’avevo mai visto così quel suo bel viso di donna anziana e ruvida, i cui sorrisi – seppur radi – illuminavano di sole le sue rughe di contadina. Quella mattina era nuvolo senza speranza. Le chiedo cosa fosse successo. Lei si siede e, prima di poter dire, piange sommessamente. Alberto è in ospedale. Il suo Alberto Venerdì notte ha rantolato nel letto, tanto da svegliarla. Ma poi non rispondeva. Rantolava con gli venta de viagra generico en madrid occhi stretti. Allora Franca ha chiamato il 118 e le hanno inviato l’ambulanza medica di rianimazione, che ha trasportato Alberto al pronto soccorso di Osimo. Emorragia cerebrale, le hanno detto, il coma è irreversibile. Mi alzo e faccio il giro della scrivania per abbracciarla; lei si alza lentamente e accoglie la mia stretta piangendo ancora più forte. Avevo visto Alberto qualche giorno prima, a casa loro; Alda, la sorella era costretta sulla sedia a rotelle e l’avevo inserita nel sistema delle visite domiciliari programmate. Due volte al mese, in giorni e orari prestabiliti, andavo a casa loro in campagna a visitare un po’ tutti e a prescrivere farmaci e consigli. Alda la trovavo sempre di fuori, talvolta occorreva cercarla nei campi. Si inerpicava con la sedia a rotelle per controllare i carciofi e gli animali dell’aia. Una volta ho portato con me anche i miei figli. Siamo tornati a casa con una busta piena di uova freschissime, incartate una per una, e due bottiglie di vino rosso fatto da loro. Franca e Alberto avevano da poco festeggiato quarant’anni di matrimonio. Cerco di farle coraggio. Franca mi confessa che spera e prega il Signore affinché prenda una decisione chiara: far tornare il suo Alberto o prenderlo con sé, – ma presto, che così non poteva vederlo. Parliamo per un po’, ma quanto si può davvero parlare e come, mentre fuori la sala d’aspetto è piena. Franca si calma e torna quell’espressione dura e decisa del volto.
Ancora un abbraccio e un saluto, e avanti un altro, che la porta fa nemmeno in tempo a chiudersi. Entra Adriana, si siede, chiede aiuto, dice che il suo Fausto non si alza più dal letto per la fiacca… Ragioniamo qualcosa da fare, assieme. I giorni passano così e la settimana vola fra il lavoro, i figli e la poca quotidianità che resta. Il Sabato mattina decido di andare all’Ospedale di Osimo a vedere la situazione di Alberto e a trovare Fausto, che nel frattempo ho ricoverato per sospetto scompenso cardiaco. Sono tutti e due nel reparto di medicina generale, al terzo piano. Alberto rantola sempre meno, dentro un respiratore automatico, sembra dormire. Accanto al suo letto una sdraio da mare con delle coperte e un plaid rosso. Sul comodino una bottiglia d’acqua a metà, una scatola di biscotti aperta, un succo di frutta consumato e un pacchetto di fazzoletti. Franca deve essere in giro da qualche parte… Saluto Alberto con uno sguardo e decido di andare nella stanza di Fausto: lo trovo un poco abbattuto, si lamenta che sta male e nessuno gli spiega niente; dissi che non era possibile; mi confessò che era timoroso di morire in poche ore, che non avrebbe visto l’estate… Il mio ruolo, ben più umile di un medico ospedaliero, è quello di esserci, di accompagnare, di rassicurare, visto che i miei pazienti li vedo molto spesso, entro nelle loro case e conosco personalmente loro e i familiari. Penso che la cosa migliore da fare sia di sincerarmi della diagnosi effettiva e di tornare poi da Fausto per parlarne. Dico
buongiorno e mi qualifico alla caposala, ma mi viene chiusa la porta in faccia senza saluto e senza darmi possibilità di spiegare il motivo della mia venuta; passo nella sala delle infermiere e saluto, mi presento e mi qualifico con un sorriso, ma mi si dice frettolosamente che devo aspettare mezzogiorno e mezza, momento nel quale c’è il medico che passa in visita… Io sono l’ultimo arrivato, non posso insegnare nulla a nessuno, però in ospedale ci
ho lavorato anche io e trovo tutto questo incomprensibile… Torno dalla caposala, apro laporta e stavolta quella si arrabbia pure e inizia a gridare, nel corridoio; mi arriva tutta la sua rabbia non detta: il rossetto troppo carico, le due dita di cerone sul viso, quella sua acconciatura fintamente trasandata, di un rosso cupo, nauseante. Mi arrabbio anch’io
senza alzare la voce, che c’è pieno di persone in cattivo stato di salute, le dico che ho il diritto di parlare con un medico o – in sua assenza – di poter vedere la diagnosi di un mio paziente sulla sua cartella clinica. Ma la caposala non risponde, si trincera nella sua stanzetta e chiude a chiave. Assisto al triste spettacolo del piccolo potere personale esercitato per negare qualcosa, utilizzato appieno per fermare tutto, per bloccare, far barriera; questa aggressività passiva del personaggio mediocre, che vorrebbe più potere di quanto meriti: una specialità di casa nostra. Alla fine, un’infermiera s’impietosisce e mi chiama dal fondo del corridoio; mi porge la cartella e la apre, così io posso leggere la diagnosi, ringrazio con un sorriso e vado dal paziente. Gli posso dire di stare tranquillo, che è in buone mani: ha uno scompenso cardiaco, una cosa che si può curare… Lui pare rasserenarsi un poco. Questa cosa avrebbe potuto impiegare non più di cinque minuti, e invece pare di chiedere la luna. Lo so come andrà il mio fine settimana, mi conosco: dormirò poco e male, farò fatica a ricaricare le batterie; e il Lunedì mattina inventerò una faccia da offrire ai miei pazienti e alla settimana che mi attende intera, pregando che non sia come la precedente. A me, chi mi aiuta? Con chi mi sfogo? A chi racconto? Con chi posso vuotare il sacco? Quando sto così, che la settimana è stata particolarmente dura, mi rendo conto che l’ambiente circostante aiuta molto poco: l’ospedale decadente, i muri rotti, le strade piene di buche, i pali storti, i cantieri lasciati a metà, i discorsi incomprensibili delle maestre d’asilo, internet che va e non va: le mille difficoltà di un paese come l’Italia che, diciamocelo francamente, sembra un paese di depressi. Questa cosa sembra venire più nettamente a galla quando si sta male, e si riesce meno a far finta di niente.
Com’è che diceva Nanni Moretti? Ah! Sì… “Ma io adesso scrivo una lettera!… Adesso scrivo una bella lettera!!…”.
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